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martedì 3 luglio 2012

I GAULOI DEI MULEKITI



I luoghi e gli avvenimenti


Chi era Mulek?
   Oltre a Lehi e alla sua famiglia (vedi il capitolo “La cocca di Nefi”) ci fu una seconda colonia di Ebrei che fuggì da Gerusalemme per recarsi nella terra promessa, si tratta del popolo di Mulek. Mulek era uno dei figli di Sedechia re di Giuda, che al tempo della morte violenta dei suoi fratelli e delle crudeli torture inflitte a suo padre per ordine del re di Babilonia era un infante. Comunque la colonia prese il suo nome, probabilmente per il suo riconosciuto ed ereditario diritto alla guida: furono infatti denominati “mulekiti”. Così, al popolo dei Giarediti proveniente dalla torre di Babele, alla stirpe di Manasse, tramite Lehi e a quella di Efraim, tramite Ismaele andò ad aggiungersi, sul continente americano, anche la stirpe di Giuda, tramite i Mulekiti.
   Le Sacre Scritture ci dicono che i discendenti di questa colonia furono scoperti dai Nefiti ai tempi di Mosia; essi si moltiplicarono, ma non avendo le Scritture che potessero guidarli, caddero in uno stato di tenebre spirituali. I Mulekiti si unirono ai Nefiti e la loro storia a questo punto si fonde con quella della nazione più grande; i Nefiti dettero il nome di “Terra di Mulek” a una parte del Nord America.

Considerazioni sul tipo di natante
   Non abbiamo alcuna descrizione di come fossero realizzate le navi dei Mulekiti pertanto possiamo fare solo delle ipotesi. Ma qualsiasi ipotesi che noi possiamo fare deve tener conto di due considerazioni di fondo:
1)     I Mulekiti non avevano con sé le Sacre Scritture, il che dimostra che avevano una fede molto labile, questo era un popolo senza guida divina. Rilevato questo ne consegue che essi avevano difficoltà ad avere rivelazioni da Dio tali da costruire navi innovative che potessero sostenere un viaggio motivato per uno scopo specificatamente divino.
2)     I Mulekiti avrebbero potuto costruire o acquistare navi secondo la conoscenza della tecnica marinara dei loro tempi e con tecniche e materiali reperibili in loco.

   Siamo nel 589 a. C. e per la costruzione delle navi di quell’epoca si utilizzavano due tecnologie prevalenti: una per le navi di papiro e l’altra per le navi in legno.

Considerazioni sulle navi di papiro.
   Il leggendario esploratore norvegese Thor Heyerdah, famoso per le sue avventure del Kon-Tiki, nella sua ricerca sulle navi di papiro fa rilevare che gli Indiani Americani, al tempo della loro scoperta da parte degli Europei, costruivano delle grandi navi di papiro, identiche a quelle usate sul Nilo dagli antichi Egizi. Egli aveva infatti scoperto che queste navi erano state in uso nel Messico al tempo della sua scoperta; che venivano usate in zone diverse del Mediterraneo, dalla Mesopotamia all’Egitto, tra le isole della Grecia ed in Sardegna, sino alle coste atlantiche del Marocco.
   La pianta che veniva usata per queste imbarcazioni era il Cyperus papyrus che si trova anche nel lago Hula in Israele, ora prosciugato.
   Secondo Thor Heyerdah le navi di papiro erano dei buoni natanti, altrimenti quei popoli non le avrebbero mai costruite, e certamente non avrebbero continuato a costruirle per secoli e per millenni.
   Inoltre egli fa notare che gli Egiziani facevano incurvare verso l’alto entrambe le estremità dell’imbarcazione, la forma adatta per viaggiare negli oceani.
   Contrariamente a quanto si possa pensare, da un punto di vista strutturale, erano anche delle buone navi grazie alla loro elasticità.

Considerazioni sulle navi di legno.
   All’inizio gli egiziani costruivano le loro imbarcazioni in legno con legni di acacia e di fico sicomoro che crescevano spontanei nel loro territorio. Ma già nel 2650 a. C. essi facevano arrivare i tronchi di cedro dalla costa fenicia, l’attuale Libano. Un antico scriba egiziano  elencando le opere del faraone Senefru scrisse, infatti, che ben 40 navi, ognuna lunga 56 metri, andarono a prelevare questi tronchi di cedro. E’ sorprendente che nel 1954 sia stata ritrovata, sepolta sotto la piramide di Cheope (2500 a. C.), un’imbarcazione in legno di cedro lunga 43,6 metri e con una larghezza di 5,7 metri e con una stazza di 94 tonnellate! Aveva una grande vela quadrata e lo scafo aveva una costruzione a guscio, cioè prima veniva costruito il fasciame e poi venivano inserite le strutture interne. Le tavole venivano cucite fra loro da un filo che passava attraverso dei fori praticati nelle tavole stesse.
   Per evitare la deformazione dello scafo su questa nave appare un grosso cavo che corre da poppa a prua impedendo così alle estremità dello scafo di inarcarsi e di rompersi urtando contro le onde marine. Un ulteriore rinforzo era dato da una sorta di imbragatura dello scafo composta da due cavi che correvano intorno al fasciame superiore e che venivano tenuti in forza da un terzo cavo che passava fra essi a zig zag.
   Sulle mura del tempio di Deir el-Bahari ci sono dei graffiti dove sono raffigurate delle navi veloci che mostrano l’alto grado di perfezione raggiunto dai costruttori di questa tipologia navale egiziana: grandi vele molto larghe, con un boma che può essere orientato a seconda del vento e ben sopraelevato rispetto alla coperta.
   Questa tecnologia, molto adatta per navi veloci, stava diventando però sempre più obsoleta per le navi adibite ai commerci. Anche in Egitto iniziarono a comparire navi più adatte per andare per mare e con maggiori capacità di carico. Queste navi erano realizzate con chiglia che irrobustiva lo scafo in senso longitudinale e le costole che davano robustezza al fondo consentendo di fissare il fasciame. Furono i fenici ad adottare per primi questo modo di costruire le navi. Anche gli egiziani cominciarono ad utilizzare sempre di più questo tipo di nave chiamata dai greci gauloi a causa della rotondità della loro carena che, con il loro rapporto di 4 a 1 tra lunghezza e larghezza, garantivano la massima stabilità nelle intemperie assieme ad un’ottima capacità di carico. Il termine fenicio era golah da cui probabilmente deriva il termine italiano goletta.

Conclusioni.
   Essendo a quei tempi la tecnologia delle navi in legno il trend evolutivo nella costruzione delle navi che dava maggior affidabilità nella navigazione oceanica e permetteva di sfruttare meglio sia le caratteristiche di stivaggio sia la manovrabilità della nave stessa, ritengo che non ci fosse motivo di utilizzare navi di papiro.
   Il fatto che gli indiani americani utilizzassero navi costruite con il papiro non vuol dire che i loro avi siano arrivati sul nuovo continente con tali natanti. Visto che le navi, ancora nel 2650 a. C., venivano costruite in legno, questi popoli potevano benissimo utilizzare per la traversata oceanica, nel 589 a. C., le navi di legno e non di papiro. È possibile che essi, provenendo poi da luoghi dove si conosceva la tecnologia del papiro abbiano, una volta insediatisi nei nuovi territori, utilizzato questa loro esperienza per realizzare natanti più consoni alle paludi, laghi e fiumi.
   Inoltre, delle famose ed ottime navi fenici se ne parlava, a quei tempi, anche nella Bibbia e la colonia dei giudei, detti Mulekiti, non potevano non esserne consapevoli. Nella Bibbia si legge:

“O Tiro, tu dici: Io sono di una perfetta bellezza. Il tuo dominio è nel cuore dei mari; i tuoi edificatori t’hanno fatto di una bellezza perfetta; hanno costruito di cipresso di Senir (monte Hermon) tutte le tue pareti; hanno preso dei cedri del Libano per fare l’alberatura delle tue navi; han fatto i tuoi remi di quercia di Bashan (alture del Golan), han fatto i ponti del tuo naviglio d’avorio incastonato in larice, portato dalle isole di Kittim (Cipro). Il lino fino d’Egitto lavorato a ricami, t’ha servito per le tue vele e per le tue bandiere.” (Ezechiele 28:3-7)
   Faccio notare che Ezechiele scrisse queste parole in un periodo che va dal 592 a.C. al 570 a. C., pertanto nello stesso periodo storico della partenza della colonia dei Giudei da Giuda.

   I Mulekiti, pertanto, possono benissimo aver acquistato le navi dai Fenici ed averle pagate come dice la Bibbia:

“Giuda e il paese d’Israele anch’essi trafficano teco, ti danno in pagamento grano di Minnith, pasticcerie, miele, olio e balsamo.” (Ezechiele 27:17).

Le navi dei Mulekiti
   È ragionevole pensare che la colonia dei Mulekiti utilizzasse navi in legno. Queste navi potevano essere benissimo delle navi onerarie (dal verbo onerare che vuol dire gravare, caricare) cioè navi mercantili chiamate Gauloi, dalla parola fenicia “gal” che significa tondo, ed avevano i fianchi arcuati (fig. 54).



   Queste navi erano lunghe normalmente tra i venti e i trenta metri e larghe tra i quattro e i sette metri, avevano un pescaggio di circa un metro e mezzo, analogo all’altezza della fiancata emersa.
   La carena, fortemente convessa, era protetta in tutta la parte sommersa, da una copertura di lamine di piombo, assicurato al fasciame con chiodi di rame, bronzo o anche di ferro. Questo rivestimento impediva la marcescenza e l’attacco da parte delle teredini, parassiti che forano il legno. Tra tale rivestimento ed il fasciame veniva disteso uno strato di bitume, grazie al quale si rendeva stagna la nave. La chiglia era estroflessa e tondeggiante e terminava a prora con la ruota e a poppa con il dritto, entrambi molto arcuati e leggermente rientranti.
   La linea di galleggiamento, che rappresentava anche la linea di massima espansione della nave, era accentuata da un trincarino estroflesso che, oltre a irrobustire il fasciame, serviva a parare i bordi. Sopra il trincarino e separata da un breve tratto di fasciame, era sistemata la soglia che rappresentava l’estremo limite del ponte di coperta e l’origine del parapetto, anch’esso, come del resto tutto il fasciame, composto in prevalenza da corsi disposti longitudinalmente, accostati di taglio e calafatati secondo il sistema “latino”.
   All’interno dello scafo, i corsi del fasciame erano appoggiati e imperniati con cavicchi alle ordinate, sulle quali, a loro volta, si appoggiavano i dormienti. Sovrapposto ai dormienti inferiori e a copertura della sentina, era sistemato un pagliolo. Tra la carena e il pagliolo era situata la zavorra, costituita da schegge di pietra.
   La parte inferiore della stiva poteva servire per l’immagazzinamento delle provviste e dell’acqua potabile. La parte più alta della stiva, con l’aggiunta di appositi tramezzi, poteva essere utilizzata come zona per i passeggeri.
   Al di sopra della stiva era il ponte di coperta. A poppa e a prua si ergevano il cassero e il castello. Il ponte di coperta e il cassero erano forniti di un parapetto normale, posto a continuazione del fasciame.
   Aveva un solo albero verticale, a volte sormontato da una coffa, con un pennone brandeggiabile sul quale veniva fissato l’unico mezzo di propulsione che era la vela di lino detta quadra anche se in realtà era più larga che alta. Le manovre correnti erano costituite da una o più drizze, che servivano a issare il pennone, e da un certo numero di caricamezzi che servivano a imbrogliare e a bordare la vela. Si poteva prendere il vento passando da andature a fil di ruota fin quasi di traverso.
   La poppa terminava con un motivo decorativo a spirale, mentre nella parte anteriore la prua era ornata con una testa di cavallo.
   In basso, sopra la linea di galleggiamento, vi erano disegnati due grandi occhi.
   La direzione della nave veniva data per mezzo di un remo di governo, che non era applicato all’estrema poppa bensì su uno dei suoi lati, prevalentemente quello di sinistra.
   L’ancora poteva essere in pirozenite e di forma trapezoidale.

Provviste
   Ovviamente, come viveri, i Mulekiti certamente avranno stivato animali vivi da macellare all’occorrenza, pesce conservato sotto sale, frutta secca, cereali, olio, acqua, vino, ecc.
   Come contenitori, a quei tempi, si usavano i pithoi che erano delle grandi giare da trasporto senza maniglie.
   Venivano usati anche canestri in fibra vegetale, e in parte intessuti con fibre graminacee, chiusi con bordo di legno cucito a sacco e ricoperti di pece all’interno.
   Certamente nella lista degli alimenti non sarà mancato il garum (molto usato dai romani) che era una salsa di pesce ottenuta dalla fermentazione di alcuni pesci ad opera dei loro stessi enzimi e in presenza di sale in funzione antisettica. Questo era un condimento altamente proteico ed è stato per molto tempo l’ingrediente principale della cucina antica.


La rotta possibile


La rotta
   Verso il 589 a .C. la colonia dei Mulekiti partì da Gerusalemme e dopo aver attraversato l’oceano sbarcò sulla costa settentrionale del continente americano.
   Il loro viaggio ebbe prima un itinerario via terra: da Gerusalemme essi attraversarono il deserto passando per l’Egitto e la Libia per poi arrivare al porto di Cartagine che si trovava sulla costa Nord dell’attuale Tunisia. Questa città fu fondata dai coloni fenici (814 a.C.) provenienti da Tiro (fig. 55).



   I fenici, favoriti dall’ubicazione logistica di Cartagine allargarono la loro influenza sul Mediterraneo controllando la Sardegna, Malta, le isole Baleari, parte della Sicilia ed avevano anche colonie in Spagna. Nel periodo in cui arrivarono i Mulekiti, Cartagine era il più importante centro commerciale del Mediterraneo occidentale.
   Con le loro navi i cartaginesi, navigando nell’oceano atlantico, arrivarono lungo la costa Africana, fino alla Sierra Leone e a nord raggiunsero la Cornovaglia. Pertanto i Mulekiti poterono acquistare, a Cartagine e non a Tiro, navi fenice in grado di solcare l’oceano e questa opportunità che Cartagine dava loro era forse la motivazione che invece di utilizzare il porto di Tiro (molto più vicino), li portò a camminare nel deserto per raggiungere il porto africano.
   Si presume che la navigazione dei Mulekiti sia iniziata verso il mese di Marzo in quanto i fenici, per motivi climatici, usavano navigare nel periodo che va da Marzo ad Ottobre.
   Da Cartagine, dove si imbarcarono, navigarono nel Mediterraneo fino a superare lo stretto di Gibilterra per poi seguire i venti verso sud e le correnti delle Canarie e quindi, grazie ai venti alisei, verso ovest fino ad entrare nel golfo del Messico e a sbarcare sulla costa settentrionale.
   L’orientamento veniva garantito tramite l’osservazione della costellazione dell’Orsa minore allora nota anche come “Stella Fenicia”.
   La velocità di queste navi non andava oltre i tre nodi; equivalendo un nodo ad un miglio nautico, cioè a 1852 metri, la velocità massima raggiungibile era di 5,55 Km/ora. Se consideriamo che i Mulekiti abbiano tenuto una velocità media di circa 1,5 nodi/ora (circa 2,8 km/ora) il loro viaggio, nel tratto via mare, è possibile sia durato non meno di circa 200 giorni e pertanto essi poterono approdare sul nuovo continente verso Ottobre.
   Questa fuga da Gerusalemme dei Mulekiti mi riporta alla memoria le recenti traversate degli Albanesi nel mare Adriatico per raggiungere l’Italia stipati all’inverosimile su fatiscenti peschereggi. Molto probabilmente i Mulekiti non navigarono su navi nuove e, contrariamente agli Albanesi, dovevano anche stivare molti viveri data la lunghezza del loro viaggio. Questi tempi lunghi di traversata portava loro anche il grande pericolo di malattie ed epidemie per cui certamente non tutti quelli che sono partiti ebbero la possibilità di vedere la nuova terra.

I Mulekiti nella civiltà Olmeca
   I Mulekiti erano sbarcati nell’America centrale verso l’anno 585 a.C. senza avere con sé le Sacre Scritture che riportavano la loro storia, la loro lingua e la loro religione. Ricevettero però la cultura dei Giudei verso il 200 a.C. da altri discendenti della tribù di Giuda: cioè dal popolo di Zarahemla (Nefiti), guidato dal re Mosia (Omni 1:14). Questo permise loro di recuperare la loro religione originaria e di integrarla con la loro specifica storia di cui avevano memoria direttamente, cioè l’eccidio da parte dei Babilonesi dei figli di Sedechia, re di Giuda, che li aveva portati in questa nuova terra.
   A testimonianza di tutto questo, oltre alle similitudini religiose che si trovano nella deità dei popoli del Centro America come quella rappresentata da Quetzalcoalt, si ergono gli archeologi che conoscono il contenuto del Libro di Mormon. Essi ravvisano infatti in maniera sorprendente la storia dell’eccidio dei figli di re Sedechia (Geremia 52:10) in due rappresentazioni scultoree degli Olmechi, che si trovano al Museo La Venta di Villahermosa, Tabasco, Messico (figure 56 e 57).




Post tratto dal libro "il geo-cristianesimo" di Piero Durazzani

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